La nuova era del mondo dei replicanti

Nel 2009 usciva un film di fantascienza, non particolarmente degno di nota in quanto a recitazione e scenografie, ma con un interessante nucleo morale di discussione al suo interno: il mondo dei replicanti.

Basato su una miniserie a fumetti (The surrogates, scritta da Robert Venditti e disegnata da Brett Weldele), il film ci catapulta in un futuro uto(o dis) – topico in cui le persone interagiscono, lavorano e svolgono altre azioni di vita quotidiana più o meno amene attraverso i loro surrogati che controllano in maniera virtuale; in sostanza le persone reali sono comodamente sdraiate sul divano di casa e gli avatar girano per la città al posto loro (suona familiare?). Una “pacchia” insomma, se non fosse che “anche il corpo vuole la sua parte”; non è sufficiente trasmettere dei semplici impulsi neurali per esperire il mondo così come lo viviamo attraverso i nostri sensi.

Insomma, se qualche mese di quarantena ha avuto i suoi effetti sul nostro umore e il nostro aspetto fisico, vi lascio immaginare i poveri protagonisti del film (quelli reali, non i loro surrogati) come erano ridotti.

Al di là della sceneggiatura e l’ambientazione di questo film di azione è interessante porre l’attenzione al dibattito finale che si crea (per uno spettatore attento): potremo mai essere sostituiti dalla nostra controparte digitale? La realtà virtuale ci aiuta a rispondere e porci nuove domande su queste dimensioni di corporalità.

All’inizio di quest’anno ha fatto scalpore la notizia di una madre del Sud Corea che ha potuto riabbracciare virtualmente sua figlia, morta nel 2016 per una malattia rara. Le strazianti immagini della reunion sono state trasmesse da un video youtube, trailer di un più esteso documentario dal titolo “Meeting you”.

Possiamo farlo?

Sì, abbiamo la tecnologia e gli strumenti per ricreare un mondo virtuale completamente identico al nostro. Abbiamo le conoscenze necessarie per indurre il senso di presenza (la percezione psicologica di essere veramente nell’ambiente in cui si è immersi) e rendere l’esperienza il più vicina possibile all’esperienza reale, in modo da attivare credenze, atteggiamenti, emozioni legati a persone, situazioni o contesti.

Dobbiamo farlo?

Dipende. Come tutte le tecnologie, le scoperte anche psicologiche in ambito di realtà virtuale seguono un andamento esponenziale. Ma il limite etico su come utilizzare queste conoscenze non è stato ancora del tutto posto.

Al di là degli utilizzi ludici o commerciali, cosa può darci insomma la ricerca in realtà virtuale?

Sicurezza. Immaginate di voler studiare una determinata componente: la memoria, l’attenzione, la socializzazione. Gli esperimenti comportamentali ci suggeriscono i meccanismi ma a volte sono difficilmente trasferibili alla vita quotidiana. Questo potrebbe essere particolarmente problematico per quelle componenti in cui l’oggetto di studio è proprio l’aspetto ecologico: pensiamo a una riabilitazione, a un anziano che deve essere dimesso dopo una lunga degenza, una valutazione neuropsicologica a cui vogliamo aggiungere una dimensione quotidiana di effettivo deficit o l’efficacia di una riabilitazione su aspetti di autonomia e gestione della casa, come per esempio il fare la spesa. Attraverso la realtà virtuale possiamo ricreare esattamente uno scenario di vita quotidiana e osservare/misurare come si comporta un partecipante in quella determinata situazione, in un contesto che definiamo sicuro. Non è infatti necessario pedinare il nostro partecipante al supermercato o piazzare delle telecamere in casa, ma possiamo portare il supermercato e la sua casa, nel laboratorio.

Essere qualcun altro? Se fossi al mio posto… Prova a metterti nei miei panni…ed espressioni simili trovano finalmente un’applicazione reale, nel mondo virtuale. Questo è possibile grazie a due principi: uno di interesse tecnico e l’altro psicologico. Attualmente possiamo creare qualsiasi avatar, anche la nostra replica perfetta (per somiglianza fisica, caratteristiche del volto) ma anche qualcuno completamente diverso da noi (un’altra etnia, dell’altro sesso, possiamo diventare più magri, più alti, più anziani). Da un punto di vista tecnologico gli avatar hanno raggiunto quel giusto compromesso tra realismo e inquietudine (il cosidetto uncanny valley, per cui la risposta emotiva a qualcosa di umanoide è piacevole fintanto che l’oggetto di osservazione è realistico, ma “non troppo”) da poter essere utilizzati per simulare i comportamenti degli individui “come” se fossero quella persona o meglio, come se rappresentassero quel gruppo sociale. Da un punto di vista psicologico questo è possibile tramite il processo di embodiment, in cui “entrare” dentro l’avatar crea un’illusione molto forte che quel corpo ci appartenga veramente, attraverso un’integrazione multisensoriale. Questo ci permette di studiare per esempio come cambiano gli atteggiamenti, i processi di socializzazione, l’empatia, gli stereotipi ma anche come i nostri stessi comportamenti sono influenzati dal semplice fatto di essere virtualmente qualcun altro.

Insomma possiamo riportare in vita qualcuno che non c’è più, almeno virtualmente, come nel documentario sudcoreano? Sì. Ma per farlo, sarebbe utile prima, indagare i meccanismi e l’impatto (positivo o negativo) che questo ha sul benessere di una persona. Può essere una terapia efficace per l’elaborazione del lutto? O al contrario rischia di perpetuarlo senza elaborare la componente di “restoration oriented”, utile al superamento dello stesso?

Viviamo in un mondo di replicanti? La sicurezza e l’essere qualcuno diverso da ciò che siamo sono proprio i due principi su cui si basano i sostenitori dei surrogati, ne “Il mondo dei replicanti”. Questo significa che stiamo procedendo verso quella direzione?

Così come è vero per altri settori, ritengo che il porsi delle domande e aprire dei dibattiti morali non solo sulle scoperte ma anche le potenzialità (positive e negative) di utilizzo delle stesse, mantenga il giusto equilibrio tra innovazione e processo, a cui siamo inevitabilmente e giustamente sottoposti, e controllo della nostra componente di “integrità morale”.

Per saperne di più:

Fribourg, R., Argelaguet, F., Lécuyer, A., & Hoyet, L. (2020). Avatar and Sense of Embodiment: Studying the Relative Preference Between Appearance, Control and Point of View. IEEE Transactions on Visualization and Computer Graphics, 26(5), 2062-2072.

Gorisse, G., Christmann, O., Houzangbe, S., & Richir, S. (2019). From robot to virtual doppelganger: Impact of visual fidelity of avatars controlled in third-person perspective on embodiment and behavior in immersive virtual environments. Frontiers in Robotics and AI, 6, 8.

Peck, T. C., Seinfeld, S., Aglioti, S. M., & Slater, M. (2013). Putting yourself in the skin of a black avatar reduces implicit racial bias. Consciousness and cognition, 22(3), 779-787.

Trailer del film “Il mondo dei replicanti”

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