Keep in touch: perché la distanza ci fa male

Si prega di mantenere la distanza di almeno un metro. Riprende la didattica a distanza. Niente contatto e mascherina su naso e bocca. Evitare contatti non richiesti. Mantenere la distanza di sicurezza. Programmare riunioni a distanza. Lavare le mani dopo il contatto con altre persone. Evitare di toccare gli occhi con mani non pulite.

Il “bugiardino” di questa pandemia sembra ripeterci due cose fondamentali: distanza e assenza di contatto.

E sebbene questo sia stato funzionale nel ridurre la diffusione del virus e il propagarsi dell’epidemia, sembra che virtuale e visivo siano diventati i due temi dominanti della nostra vita presente  (e futura?).

Per quanto siamo portati a pensare che la vista sia il nostro senso preferito e la dominanza linguistica di azioni quali guardare e vedere sia largamente più utilizzata rispetto a toccare e sentire (in senso tattile) in realtà molte parole ed espressioni quotidiane che descrivono le nostre relazioni hanno a che fare con il tocco: il contatto della nostra rubrica, restiamo in contatto e altre espressioni relative alla sensibilità delle relazioni (cerca di avere tatto) e l’eleganza in termini pratici e astratti (tocco di classe) coinvolgono il quinto senso.

Insomma chi avrebbe mai pensato di soffrire così tanto della perdita degli aspetti relazionali durante questa pandemia? Del resto, gli scenari di una pandemia negli anni scorsi, sembrano molto meno rincuoranti rispetto ad adesso. Senza andare troppo lontano con l’immaginazione, basterebbe tornare al 2010. Basti pensare che l’utilizzo di WhatsApp (in Italia dal 2009) era poco diffuso e le possibilità di sentire e vedere (almeno virtualmente) gli amici o di seguire lezioni a distanza erano davvero limitate .

Il virtuale ci ha “salvato” insomma, almeno in parte; ma non è che abbiamo dimenticato qualcosa?

Il tocco ha un importante ruolo nel nostro benessere psicofisico. La deprivazione del tocco, tipica di bambini cresciuti in istituto o di figli di madri depresse mostra una forte correlazione con ritardi cognitivi rispetto a bambini di pari età. Inoltre il tocco è in grado di veicolare emozioni al pari del riconoscimento di espressioni facciali e della comunicazione verbale. È in grado di predisporre a una maggiore collaborazione: per esempio, le persone sono più propense a dare qualcosa se la richiesta viene accompagnata simultaneamente da un tocco. Questo è stato dimostrato sia con autisti di autobus (con maggior probabilità di ottenere una corsa gratuita) o di venditori di auto (che ricevono valutazioni più positive rispetto ai colleghi meno “toccarecci”). E ancora in classe è stato dimostrato che gli studenti sono più propensi a dare volontariamente le risposte durante compiti alla lavagna quando è presente un tocco gentile da parte dell’insegnante. Certo questi aspetti variano da cultura a cultura. Non dappertutto si è soliti comunicare attraverso il contatto e seppur questo abbia dimostrato come sia presente una maggiore aggressività negli adolescenti di culture con meno “tatto” (es. studenti americani vs. studenti francesi) è evidente come il tatto giochi un ruolo più predominante di quello che penseremmo normalmente. E per quanto ci riguarda, la cultura italiana è molto predisposta al contatto.

È inevitabile quindi chiedersi quali saranno gli effetti di questa distanza. In un articolo precedente mi ponevo questa domanda, relativa al corpo: stiamo diventando degli esseri virtuali? Ci ricordiamo che il corpo, inteso sia come tatto, che propriocezione che schema corporeo, vuole la sua parte? Pandemia o non pandemia è questa la direzione che stiamo prendendo? La quarantena, la didattica a distanza ci hanno indicato il nuovo modo di interagire da un punto di vista relazionale? Siamo sicuri che i contatti virtuali saranno sufficienti?

Come dicevo non è solo una questione di tatto. In ambito degli studi di realtà virtuale si parla del senso di presenza, un concetto davvero affascinante che indica, in termini semplici, la sensazione di “esserci”.

Slater e Wilbut nel 1995 distinguono, tra i fattori che influiscono sul senso di presenza che è in grado di indurre uno schermo digitale (completamente immersivo o meno), tra inclusione (quali stimoli del mondo reale sono esclusi e quali no), estensione (il livello di multisensorialità coinvolto, es. solo vista o anche uditivo, olfattivo, propriocettivo) e vividezza (risoluzione del display). Senza contare che in questo modello una visione e rappresentazione egocentrica rispetto a un corpo virtuale immerso in un ambiente virtuale sono in grado di aumentare il senso di presenza, portando a un perfetto matching tra propriocezione  e sensorialità.

Non serve, insomma aver studiato questi concetti per notare la differenza. Sono comode le riunioni online, ma…non è la stessa cosa. Che bella la didattica a distanza, continuiamo a fare lezione anche se non fisicamente, però… manca qualcosa.

Forse è questa la parola che ci manca. Ci manca il con-tatto. E ci sembra, in fondo, di “non esserci”.

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